Il segretario fiorentino

Niccolò Machiavelli in un ritratto di Santi di Tito, ora conservato in quello Palazzo Vecchio di Firenze dove ebbe a svolgere tante e delicate mansioni (analisidellopera.it)

Niccolò Machiavelli nacque a Firenze il 3 maggio 1469. Seguì studi umanistici sotto la guida di Marcello Virgilio Adriani, che in seguito lo avrebbe raccomandato per il governo della repubblica.
Così, nel 1498, Machiavelli fu posto alla guida della seconda cancelleria, competente in particolar modo per le questioni di politica estera e militare, venendo poi assegnato alla cruciale segreteria dei Dieci. Allora Firenze attraversava un momento travagliato, avendo appena assistito dapprima alla caduta del regime della famiglia Medici e poi a quella del predicatore domenicano Girolamo Savonarola, poi finito sul rogo. Non che d’altronde la situazione nel resto dell’Italia fosse serena: in effetti lo splendore culturale si accompagnava alle interferenze delle potenze europee, senza dubbio agevolate dalle continue diatribe tra i diversi stati in cui era suddivisa la penisola.
Proprio il lavoro, corredato anche da missioni diplomatiche, nell’amministrazione fiorentina offrì a Machiavelli un osservatorio privilegiato tanto sulle questioni politiche più scottanti quanto sulla condizione umana. In particolar modo giunse alla conclusione che gli stati non dovessero fare affidamento sulle volubili compagnie di mercenari, sempre foriere di disordini e voltafaccia, bensì su milizie regolarmente arruolate, addestrate e stipendiate.
Tra il 1511 e il 1512, sullo sfondo della guerra tra il re di Francia e Papa Giulio II, Machiavelli fu incaricato della stessa difesa di Firenze. Ma la battaglia di Prato registrò la sconfitta della repubblica e il concomitante ritorno dei Medici al potere, suggellato nel 1513 dall’elezione a Papa del cardinale Giovanni, che assunse il nome di Leone X. Com’era prevedibile, il cambio di regime si ripercosse anche su Machiavelli, il quale venne licenziato, incarcerato e finanche torturato.
Profondamente amareggiato, si ritirò con la moglie e i figli nella sua casa dell’Albergaccio, a Sant’Andrea in Percussina, nei pressi di San Casciano. Ma fu proprio qui, nella solitudine della campagna, che poté attendere alla stesura di quelle opere, spesso scaturite dall’osservazione della realtà circostante, che avrebbero consacrato il suo nome. Si ricordano, per esempio, opere storiografiche come i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e Vita di Castruccio Castracani come anche la commedia satirica La Mandragola.
A questa fase appartiene anche il suo massimo capolavoro: Il Principe. Dedicato, nel tentativo di ingraziarselo, al nuovo signore di Firenze Lorenzo de’ Medici, duca di Firenze, rappresenta un’acuta e spesso impietosa disamina dell’arte del governo, nella quale chi regge gli stati deve fare i conti innanzitutto con la fondamentale imperfezione degli esseri umani. Ecco allora che il principe è chiamato a essere, a seconda delle circostanze, leone o volpe, ricorrendo a volte alla forza e a volte all’astuzia. Tuttavia è improprio presentare il letterato fiorentino come il teorico di un brutale cinismo insofferente ai dettami della morale. Piuttosto il suo rappresenta uno sforzo volto a scrutare il mondo con uno sguardo disincantato, intriso di amaro realismo, senza lasciare spazio a un ingenuo idealismo.
Nel 1527 il Sacco di Roma provocò, per riflesso, l’ennesimo cambio di regime. Di nuovo da Firenze vennero cacciati i Medici. Per un’amara beffa del destino Machiavelli venne relegato ai margini dal ricostruito governo repubblicano, che ora gli rinfacciava i legami che aveva intessuto, seppur con fatica, con la fazione medicea. Ormai emarginato e umiliato, Machiavelli morì a Firenze il 21 giugno 1527, lasciando la sua famiglia in povertà.
Al di là dell’incomparabile valore del suo lavoro letterario il segretario fiorentino può essere ritenuto, a buon diritto, il padre delle scienze politiche come noi le conosciamo ora.

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